Faccio subito una premessa: Andrea Scanzi è un giornalista che stimo, e con il quale sono quasi sempre in sintonia, sia nelle sue disanime politiche che quando scrive di argomenti apparentemente meno seri. Sicuramente tignoso nel senso che piace a me, sicuramente egocentrico (ed è, naturalmente, un pregio) e sicuramente capace, lo seguo da quando scriveva sul Mucchio Selvaggio e stroncava (giustamente) la band in cui suonavo allora (ma quando gliel’ho detto, per fortuna o purtroppo, non se ne ricordava) e l’ho conosciuto quindi soprattutto in veste di giornalista musicale (proprio la musica, eccezion fatta per Ivano Fossati, Springsteen e i Pearl Jam, è l’unico argomento su cui mi capita di non condividere i suoi giudizi), per poi apprezzarlo ancora di più da quando scrive sul Fatto Quotidiano. Di lui mi piacciono la franchezza e il giocare a carte scoperte per quanto riguarda opinioni, schieramenti, schiettezza e punti di vista, cosa che lo contraddistingue dalla stragrande maggioranza dei suoi colleghi, oltre alla vis polemica e allo stile appuntito e agguerrito. In più, c’è una cosa puramente generazionale: è appena più vecchio di me, e mi fa piacere quando c’è un mio coetaneo, o giù di lì, che ha una voce, precisa e distinguibile, nel mare di inettitudine, sconfitta e poca personalità che, ahimé, connota quelli della mia generazione. Insieme alla mia ragazza, lo incontro in un bar di Mandello Lario, prima di una data del suo spettacolo su Gaber, e proprio mentre chiacchieriamo di tutto un po’ e con un giro di parole, come direbbe Renato Pozzetto, gli faccio capire che lavorare al Fatto mi piacerebbe un bel po’, dal televisore sopra le nostre teste il tg5 passa la notizia dell’ennesimo monito di Napolitano che consiglia ai giudici di tenere la testa bassa e non esagerare nelle loro inchieste e nelle loro sentenze verso certa classe politica. Non commentiamo, ma il fatto mi pare abbastanza ironico in sé.
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